Il cristianesimo si è diffuso in Ungheria grazie alla santità dei membri della famiglia reale, che per secoli hanno governato il paese ispirandosi al Vangelo e all’insegnamento della Chiesa romana. Non si trattava solo di sovrani illuminati: spesso, erano veri e propri santi canonizzati dalla Chiesa. Un segno caratteristico che li definiva era l’attenzione per i poveri. Nobili per retaggio, erano nati nel palazzo reale; nobili nello spirito, si occupavano di lebbrosi, derelitti e malati, non solo attraverso fondazioni e donazioni ma, in molti casi, prendendosi cura direttamente dei miseri, imboccandoli, fasciandoli, vestendoli; talvolta, portandoli letteralmente sulle spalle. Un’alleanza – quella di trono, altare e ospizio – tipica del medioevo cristiano.
Questa tradizione caritativa è ancora viva in una parte del mondo cattolico ungherese. Ogni settimana frequento un servizio per le persone senzatetto, che opera in centro a Budapest. Si forniscono cibo, medicine, vestiti e supporto burocratico a chi vive per strada o in condizioni di grave miseria. I poveri sono molti. Non è la condizione economica del paese la causa principale del gran numero di bisognosi. Il motivo è soprattutto spirituale e legato alla crisi delle famiglie: c’è chi, malato, è stato rifiutato dai parenti o dal coniuge e si è trovato completamente solo; c’è chi, per sua scelta, decide di rifiutare tutto e tutti; c’è chi è sprofondato nel vortice dell’alcolismo o è uscito dal carcere. La maggior parte di queste persone soffre di problemi psichici. I fattori si accavallano tra loro. La mia mansione consiste soprattutto nel preparare i panini la mattina, prima dell’apertura del servizio. Poi abbiamo un momento di preghiera con i volontari e i lavoratori del centro. All’arrivo degli ospiti, distribuisco il caffè, sempre molto richiesto. Con alcuni si scambiano quattro chiacchiere, altri chiedono di confessarsi. Ci sono ex-professori universitari e semianalfabeti. “Padre, come faccio a non desiderare la roba d’altri se vivo per strada frugando nei cestini dell’immondizia per mangiare?”.
Anche nel più piccolo dettaglio
siamo fatti per un “di più”
C’è una signora che, ogni volta che mi accingo a versarle il caffè nel bicchierino di plastica, chiede immancabilmente: “Potrebbe versarmene un po’ di più?”. All’inizio, pensavo tra me: “Ma come? Il bicchiere è ancora vuoto, non ho nemmeno iniziato a riempirlo di caffè e già si lamenta?! Uno dei tanti personaggi strambi…”. Poi ho capito che la sua richiesta aveva un senso: esprimeva il desiderio, il bisogno di quel “di più” che alberga nel cuore di ogni uomo. Non bastano il pane, la bevanda, il paio di scarpe o lo psicofarmaco. Anche nel più piccolo dettaglio, spesso inconsapevolmente, siamo fatti per un di più. All’inizio, si traduce in un po’ di attenzione, un sorriso, uno sguardo umano. Ma il bisogno per eccellenza è quello di Dio, della sua verità e del suo perdono. Alcuni di questi senza tetto mi testimoniano, spesso più delle persone benestanti che incontro, una povertà di spirito esemplare. Mihály, un buttafuori tatuato, conosce il catechismo meglio dei miei studenti universitari: quando mi chiede un confronto è di un’umiltà commovente.
Siamo tutti poveri mendicanti davanti a Dio, abbiamo bisogno di essere salvati. Per questo, ringraziamo il movimento di Comunione e liberazione che ci ha donato una coscienza grande dell’essere cristiani e, attraverso l’educazione alla caritativa, uno strumento per vivere concretamente questa coscienza. Come scrisse Hans Urs von Balthasar nella sua ultima opera-testamento sul Credo: «È un mistero come il Signore giudicherà alla fine, ma dal Vangelo sappiamo che non saremo giudicati in base all’elevatezza dei nostri pensieri o alla profondità delle nostre esperienze spirituali ma in base alla carità. Ero affamato e mi avete dato da mangiare (o non mi avete dato)».