«Volete andarvene anche voi?»

Vivere la comunione ci aiuta a sostenerci a vicenda nel seguire Gesù.

Un gruppo di universitari di Comunione e Liberazione di Santiago del Cile, durante una vacanza invernale.

Quante volte nella nostra vita abbiamo trovato il linguaggio di Dio duro, incomprensibile, difficile da accettare? Quante volte quello che ci è capitato ci è sembrato ingiusto, ci è sembrato “troppo” da sopportare? Quante volte abbiamo pensato: “Abbiamo già dato…” Oppure: “Non mi potrà chiedere qualcosa di più di questo.” E invece, ecco che la vita ci ha chiesto ancora di più, in modo inaspettato, quasi che si volesse accanire contro di noi o qualche persona a noi cara.
E ogni volta è come risuonata la domanda rivolta, quel giorno, da Gesù ai suoi discepoli più fedeli: Volete andarvene anche voi? (Gv 6,67). Aveva appena terminato uno dei suoi discorsi più difficili e controversi, provocando l’ira e la delusione di tanta folla che lo aveva seguito sperando da lui la risoluzione di ogni loro problema. Così se ne erano andati, irritati e confusi.
A volte ci sembra che riaccada a noi la stessa cosa. È come se Cristo ci chiedesse se vogliamo andarcene come hanno già fatto in tanti prima di noi: amici, compagni di scuola, colleghi, famigliari… Il mondo ha da tempo fatto la sua scelta.
Me lo diceva qualche giorno fa una cara amica, di fronte alla sofferenza della sorella: “Dimmelo tu se è giusto: la gente onesta deve soffrire in questo modo, mentre chi se lo meriterebbe – e lei aveva bene in mente a chi si riferiva – vive a lungo e senza scrupoli.”
Ecco perché ci viene naturale immedesimarci nei discepoli, che si sentono rivolgere quella domanda. Ma se ci mettiamo nei panni di Gesù, capiamo che anche per lui quel momento non deve essere stato facile: lui che era il Figlio di Dio, si era fatto uomo per far conoscere il Padre al mondo intero e dopo trent’anni di vita privata e tre di miracoli, discorsi, segni di vario tipo, in quel momento vedeva che tutti se ne stavano andando, lo stavano abbandonando. Immagino con quale tremore, con quale trepidazione, avrà rivolto a Pietro e agli altri quella domanda, col cuore umanamente sospeso per il timore che anche loro se ne sarebbero potuti andare e lui avrebbe dovuto ricominciare da capo, con altra gente che fosse disposta a seguirlo, nonostante il suo linguaggio potesse apparire duro e incomprensibile.
Eppure, nella nostra vita non ci sono solo questi momenti di prova, di domanda, di dubbio. Ci sono anche tanti momenti in cui ci vengono dati dei segni, piccoli o grandi, della sua presenza, della sua cura per noi, della sua fedeltà.
Quando ero in missione a Taiwan, mi era stato chiesto di andare a trovare, ogni tanto, alcune comunità di amici in Australia. Nel mio ultimo viaggio avevo conosciuto Laura, ragazza dagli occhi grandi e luminosi, appassionata di lingue straniere, trapiantata a Melbourne dopo alcuni trascorsi anni in Irlanda, paese dove aveva conosciuto il suo futuro marito. Qualche anno dopo, ormai sposata e mamma di due bambini, Laura ha scoperto di avere una forma aggressiva di tumore. Io ero ormai rientrato in Italia, e attraverso suo padre ero venuto a sapere delle sue sofferenze e della sua iniziale ribellione ad una circostanza che pareva contraddire in modo palese quelle premesse di speranza poste nella sua vita fino a quel momento e che sembravano rivelarsi improvvisamente illusorie e false. Poi la decisione di tornare in Italia per farsi curare e la progressiva scoperta di una realtà fatta di amici e di persone che le volevano bene che hanno sostenuto lei e la sua famiglia non solo nell’affrontare la fatica della malattia e delle cure, ma anche nel cogliere ogni istante di bellezza e gratuità che la vita ogni giorno le regalava. Perché è dentro un’esperienza di comunione che diventa possibile il “sì” di ciascuno di noi.

Ci sono tanti momenti in cui ci vengono dati segni della sua presenza, della sua cura per noi.


Un anno fa ero stato, assieme a don Francesco, a dire messa a casa sua, con suo marito, i suoi figli, i suoi genitori. E ho ritrovato i suoi occhi, sempre grandi, luminosi e sorridenti. Il fatto di essere lì, quel giorno, dopo tanti anni dal nostro primo incontro avvenuto dall’altra parte del mondo, era il segno che Dio aveva conservato in tutto questo tempo il nostro “sì”, conducendoci attraverso strade differenti, anche impervie e dolorose, perché ci potessimo ritrovare insieme, in quel momento, a rispondere alla stessa domanda fatta da Gesù ai suoi discepoli e per dirgli che… “no, non ce ne siamo andati”, che lo abbiamo seguito, ognuno per la sua strada, ognuno dentro la sua vocazione, anche se, per lei e la sua famiglia, era stato doloroso farlo, e non scontato.
Per questa ragione, sentiamo vere le parole con cui Pietro risponde alla domanda di Gesù: “Signore, se andiamo via da Te, da chi andremo?”, perché solo Lui ha “parole di vita eterna” (cfr. Gv 6,68), parole, cioè, che danno alla nostra vita un respiro più grande, che ci aiutano a guardare alle nostre gioie e alle nostre fatiche dentro una prospettiva più luminosa, quella dell’eternità, che riempie di speranza ogni istante dell’esperienza che viviamo.
Ora Laura vive già, in modo definitivo, dentro quell’eternità, assieme ai tanti che ci hanno preceduti e che “non se ne sono andati”, che non hanno lasciato questa nostra stessa strada.
Noi siamo assieme per aiutarci nel sostenere la nostra risposta a quella domanda di Gesù, senza smettere di domandare, anche noi, che ci renda più chiaro il mistero che si cela dietro a tutte quelle parole e a tutte quelle circostanze che ancora facciamo fatica a capire.

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