Ero prete già da qualche anno quando accadde il mio incontro con don Giussani: stavo attraversando una crisi terribile e questo incontro mi ha cambiato la vita. Si tratta di una storia lunga, ma credo valga la pena sottolineare alcune cose per capire ciò che ha fatto nascere questo angolo di paradiso chiamato “Fondazione San Rafael”. È una fondazione autonoma rispetto alla parrocchia, certamente, però, è un riflesso della dimensione caritativa che la parrocchia ha vissuto e vive dall’inizio della nostra missione.
L’incontro con Giussani avvenne nel marzo del 1989, il giorno dell’Annunciazione. Mi sentivo distrutto, ero umanamente a pezzi, perché avevo perso il senso della mia vita. L’origine di questa depressione era dovuta a una grave crisi affettiva che mi aveva fatto precipitare nella convinzione che la vita non avesse più senso, che nulla avesse senso: avevo capito che senza una grande compagnia, un grande padre, non sarei mai stato in grado di uscire dal profondo pozzo in cui ero caduto.
Fu così che chiesi a Giussani di ricevermi a casa sua in via Martinengo, a Milano. Mi accolse con grande gioia e quando mi vide con le lacrime agli occhi mi abbracciò dicendo: “Che ti succede, padre Aldo?”. Sono scoppiato in lacrime e gli ho raccontato tutto quello che stavo passando. Fissandomi negli occhi mi disse: “Che bello, padre Aldo! Adesso finalmente diventerai un uomo! Sì, perché quello che stai vivendo è una grazia per te, per il Movimento e per tutta la Chiesa”. Non riuscivo a credere ad una risposta di questo tipo: nessuno mi aveva mai valorizzato, abbracciato e stimato così tanto prima.
Poi aggiunse: “Che bello sarebbe se trovassi qualcuno che possa farti compagnia in questo momento di fatica”. Allora gli obiettai: “Ma, don Giuss, dove trovo qualcuno disponibile a stare in compagnia di un depresso e schizofrenico?!”. E lui: “Allora vorrà dire che quest’estate tutto il mese di agosto lo passerai con me a Corvara, partecipando a tutti i miei incontri”. E così, durante quel mese a Corvara, ho avuto modo di conoscere un suo amico, nonché professore e psichiatra, Eugenio Borgna. Ricordo che durante un’assemblea del CLU, Borgna disse: “Siamo tutti un po’ schizofrenici”. Al che Giussani applaudì energicamente e aggiunse: “Sì, tutti abbiamo questa schizofrenia dentro di noi, tutti sperimentiamo questa divisione dell’Io ogni giorno in tutto ciò che viviamo”.
La clinica è bella, bella come è bello Cristo, come è bello il malato di AIDS
Alla domanda su quale fosse il metodo per uscire da questa paranoia la sua risposta perentoria fu: “Attraverso una compagnia, qualcuno di vicino a cui poter donare la propria persona: quello di cui abbiamo bisogno è un abbraccio di qualcuno che testimoni una grande gratuità nei confronti della nostra persona”. Compresi subito perfettamente la profondità di quelle parole e, grazie a questo, capii ciò che stavo provando nella mia vita. Dal momento di quell’abbraccio, Giussani iniziò a seguirmi personalmente ogni volta che avevo bisogno di lui: potevo chiamarlo a qualsiasi ora del giorno oppure mi invitava ad andare a trovarlo nella sede del movimento a Milano.
La sua tenerezza nei miei confronti si è espressa nella decisione che ha preso di mandarmi in Paraguay. Ricordo che, a Collevalenza, dissi a Giussani: “Come puoi rischiare un impegno così grande con una persona così disabile e depressa?”. Lui rispose: “Ho fiducia in te e sono sicuro che questa sfida ti farà molto bene”. Per questo, l’8 settembre 1989, mi accompagnò personalmente all’aeroporto di Linate, caricandomi sull’aereo che mi portò in Paraguay.
Sono passati tanti anni da allora. In questo tempo tanto è il dolore e la sofferenza che ho provato qua in Paraguay. Ma il Signore mi ha concesso di avere grandi amici come don Alberto e don Paolino. Dopo quasi 10 anni di permanenza in Paraguay, hanno cominciato a fiorire le opere che oggi tutti possiamo vedere e toccare con mano, come espressione dell’abbraccio che Giussani mi diede allora. Non c’è nessuna di queste opere che non sia il frutto di questa tenerezza con cui Giussani mi ha accompagnato fin dall’inizio. Non si può abbracciare nessuno se prima non si è abbracciati da qualcuno, per questo tutte le opere qui sono frutto della tenerezza di Dio che mi ha raggiunto attraverso l’abbraccio di don Giussani.
Non c’è una spiegazione che si possa dare a tutto ciò che esiste qui, ma la Provvidenza divina è intervenuta servendosi di questo povero depresso per manifestare il suo rapporto con i poveri, con gli ammalati, con gli anziani, con i bambini, con coloro che hanno fame e vengono qui ogni settimana per un pranzo o un sacchetto di generi alimentari. Un segno molto bello di questa accoglienza è che tutti i pazienti della clinica di cure palliative hanno un fiorellino sul comodino, come segno che il paziente è il volto di Cristo.
Ogni mattina, anche adesso che sono su una sedia a rotelle e non posso muovermi, l’infermiere di turno mi porta in clinica a visitare ogni paziente, a benedirlo, augurando loro una buona giornata. E la clinica è bella, bella come è bello Cristo, bella come è bello il malato di AIDS o quello corrotto dal cancro che gli mangia la bocca. La maggior parte di loro muore dopo essere stato con noi per poco, ma mai a nessuno, pur essendo in situazioni davvero penose, passa per la testa di chiedere l’eutanasia, perché si sente amato, abbracciato. La solitudine è stata sconfitta alla radice. Per questo, vivendo con loro, ho capito che la battaglia contro l’eutanasia si gioca sulla capacità di amare liberamente il paziente tenendogli la mano, standogli accanto fino alla fine.
Prima di restare sulla sedia a rotelle, ogni mattina portavo il Santissimo Sacramento a ciascun paziente; li benedicevo tutti e a chi era cosciente davo anche la Comunione. Quando qualcuno moriva, celebravamo la messa in cappella con la salma presente per poi portarla al cimitero che abbiamo in un terreno in campagna, vicino alla fattoria. Ora, nella clinica, con l’aiuto di un sacerdote, facciamo la processione ogni mercoledì mattina con il Santissimo Sacramento. Non solo tutto è bello, ma risplende la passione educativa per la verità, affinché tutti noi qui presenti possiamo sperimentare la presenza del Mistero in ogni dettaglio. Finora abbiamo accompagnato alla morte quasi 2.000 pazienti affetti da AIDS, cancro e altre malattie.
Io sono un povero uomo, ma qui Dio fa cose che commuovono il mondo
Infine, voglio riconoscere la presenza della Divina Misericordia in quest’opera manifestata attraverso la bellezza di ogni dettaglio: tutto questo è frutto di quella bellezza e di quell’abbraccio che Giussani mi ha dato tanti anni fa. Altrimenti non si spiega come possa esistere un’opera così, che costa milioni di dollari che non so neanche da dove siano arrivati. Io sono un povero uomo, sono un quasi niente: ma qui Dio ha fatto senza dubbio cose che commuovono il mondo intero. Questa è l’evidenza della presenza di Dio che si serve dei poveri come me. Ancora oggi penso: “Signore, ma come hai fatto a fare tutte queste cose?”. Senza dubbio vedo che il Signore ha bisogno di gente inutile, che però si consegna totalmente a Lui per potergli lasciar fare ciò che qui esiste.
Per questo desidero davvero ringraziare tutti, a cominciare dal Santo Padre Francesco che, quando visitò il Paraguay nel 2015, contravvenendo al protocollo, decise di venire alla clinica per benedire i malati che erano qui raccolti. Visitando la cappella mi disse: “Padre Aldo, questa è opera di Dio, vai avanti!”.
E voglio ringraziare anche l’amico grande e caro che è qui con me, padre Patricio che mi sostiene con la sua umanità: con lui condivido questo lavoro, in particolare quando viene qui tre volte alla settimana per celebrare la messa. E voglio ringraziare anche la Fraternità san Carlo Borromeo nelle persone che ci visitano sistematicamente, che quando vengono mi mostrano sempre una grande attenzione e un grande amore alla mia persona. È sempre lo stesso abbraccio dell’inizio che è ancora vivo, palpitante, tenero e forte.