A settembre abbiamo accolto in Casa di formazione cinque nuovi ragazzi che desiderano dare la vita a Cristo. Vengono da tre paesi diversi: Italia, Stati Uniti e Spagna. Avendo background differenti è facile immaginare quanto la casa sia cambiata con il loro arrivo.
Oggi si parla molto di accoglienza, ma pare evidente che, più se ne parla, meno si riesce ad accogliere l’altro. Sono tanti gli episodi di cronaca che i giornali ci offrono ogni giorno – purtroppo con sempre minore rispetto e discrezione –, dove la combinazione di chiusura di sé e diversità dell’altro innesca una evidente incapacità di accoglienza che spesso esplode in gesti di violenza che ci lasciano senza parole. Ma forse, senza allontanarci troppo dalla nostra quotidianità, anche in casa o al lavoro possiamo ravvisare negli altri, e soprattutto in noi stessi, piccoli segnali della stessa difficoltà.
Non può esserci accoglienza senza
un continuo lavoro di conversione
Eppure l’esperienza di accogliere ed essere accolti è davvero decisiva e accompagna ogni istante della nostra vita, dalla nascita alla maturità, fino alla vecchiaia e alla vita dopo la morte. La stessa natura umana ci dice quanto sia fondamentale questa esperienza: è dall’accoglienza reciproca degli sposi, infatti, che può nascere una nuova vita. Come a dire che senza l’esperienza dell’accoglienza l’uomo non può vivere.
Anche per la vita di fede l’accoglienza riveste un ruolo decisivo. Gesù lo dice molto chiaramente nel Vangelo quando afferma che chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso. O anche, che chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. In un suo libro, don Giussani scrive: «Indubbiamente il primo bisogno di una persona è quello di essere accolta».
Cosa intendiamo, quindi, quando parliamo di accoglienza, il filo rosso che lega i racconti di queste pagine?
Anni fa, quando ero seminarista, mi rimase impressa una frase di don Massimo che cito a memoria: “Quando una sola persona si aggiunge a noi, tutta la Fraternità cambia”. Negli anni successivi, ho scoperto quanto sia vera questa affermazione. Essa non indica lo sforzo moralistico che ci impone di cambiare per essere accoglienti ma il contrario: accogliere vuol dire cambiare.
Non può esserci accoglienza senza un continuo lavoro di conversione. Essa non è mai un traguardo raggiunto proprio perché l’altro, essendo libero, è sempre nuovo. L’etimologia della parola ci aiuta a comprendere meglio: accogliere deriva da ad-colligere, che a sua volta nasce da co-legere: raccogliere insieme, guardare insieme. Accogliere indica perciò l’apertura a un altro punto di vista con cui guardare la realtà per raccoglierne insieme il significato: e questo ci chiede una disponibilità che mantiene l’animo giovane. Ma non è ancora tutto.
Sarebbe impossibile se non riconoscessimo prima di tutto l’iniziativa di Dio su di noi
Se proseguiamo nella lettura del Vangelo, vediamo come i bambini accolgono il Regno di Dio, cioè Gesù stesso: [Egli] prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro. Il vero modo di accogliere è questo, donarsi, lasciarsi abbracciare. Accogliere l’altro, quindi, chiede anche il dono di sé, comporta l’offerta della nostra esperienza, del nostro giudizio o pensiero. Accoglienza e dono di sé sono inscindibili.
Tutto ciò sarebbe impossibile se non riconoscessimo prima di tutto l’iniziativa di Dio su di noi: ogni giorno Lui ci accoglie, si dona a noi, coinvolgendoci nella Sua vita: un continuo donarsi e riceversi tra Padre, Figlio e Spirito. Così, più viviamo e riviviamo questa esperienza – anche con le “solite” persone – più ci compiamo secondo quella immagine e somiglianza con cui siamo stati creati.
Come testimoniano queste pagine, anche quando veniamo mandati in missione, il dare e il ricevere si confondono, e spesso, come accade per i bambini del Vangelo, è proprio accogliendo le persone a cui siamo mandati che riceviamo l’abbraccio di Cristo.